
Accogliere: una parola che significa molto, specie per chi fugge da una guerra e non sa esattamente dove andare, cosa fare, se e quando potrà tornare a casa, sempre ammesso che una casa ancora ci sarà.
“L’accoglienza è un’apertura: ciò che così viene raccolto o ricevuto viene fatto entrare – in una casa, in un gruppo, in se stessi. Accogliere vuol dire mettersi in gioco, e in questo esprime una sfumatura ulteriore rispetto al supremo buon costume dell’ospitalità – che appunto può essere anche solo un buon costume. Chi accoglie rende partecipe di qualcosa di proprio, si offre, si spalanca verso l’altro diventando un tutt’uno con lui”. (Una parola al giorno). L’Associazione Comunità Il Gabbiano da molti anni lavora nell’accoglienza e anche in questa occasione si è resa disponibile a supportare i profughi ucraini giunti nel nostro territorio. Ucraina significa terra di confine, lo abbiamo imparato tutti ormai. Il confine è una linea immaginaria, tracciata dall’uomo, su una terra che è di tutti. Una linea che divide uomini che spesso hanno una storia comune e li obbliga a stare da una parte o dall’altra e a combattersi anche contro il proprio volere. E quando c’è una guerra ci sono persone che da quella guerra scappano e si ritrovano a vivere insieme, ipotetici nemici, in un paese straniero che li accoglie. In questa accoglienza ai profughi ucraini c’è, oltre al tema della migrazione, anche una caratteristica nuova: i profughi vivono qui vicino a noi, arrivano spesso con la propria auto, fuggiti in fretta, e pensano, o forse ormai hanno pensato, che fosse per poco tempo, una breve parentesi, un’urgenza necessaria per non rischiare la vita, ma una parentesi limitata nel tempo. Sono per la maggioranza donne e bambini, e anche anziani e malati. Sono in parte disorientati, perché non è chiaro quanto lunga sarà questa parentesi. Vogliono lavorare, rendersi utili e sentirsi attivi. Vogliono pensare di potere rientrare nelle loro case. E ci sono coppie miste, Ucraina e Russia insieme. E parenti che abitano in entrambe le zone di confine. E persone che si ritrovano in fuga, appartenenti a schieramenti opposti. Giovani ragazzi che seguono a distanza le lezioni della propria scuola, interrotte dalle sirene dei bombardamenti, aspettando che i compagni di classe rientrino dal rifugio dove sono scappati. Ci sono emozioni contrastanti: dispiacere e preoccupazione per chi è rimasto là, sradicamento non scelto, rabbia contro tutti per sentirsi subire una situazione così violenta. In questo contesto una manifestazione come quella dei pani migranti assume un significato profondo: si raccolgono le ricette del pane di tanti paesi diversi, anche l’un contro l’altro armati. Dovunque il pane ha a che vedere con la vita: pane significa casa, famiglia, una tavola intorno alla quale mangiare insieme. Mentre guerra significa morte: non esistono guerre gentili. E le guerre le vogliono i potenti , ma la gente che muore è sempre quella del popolo, che spesso non ha nessuna intenzione di combattere. E quindi anche solo per un giorno potere vendere e acquistare il pane prodotto con le ricette di Ucraini e Russi, profughi insieme, può avere un significato di pace, di convivenza e di speranza.
(A Garlate , Panificio Riva, via Statale 315)

