LA SENTENZA DELLA PANDEMIA IN CARCERE
(19 NOVEMBRE 2020) – Nel quadro della pandemia in corso i reclusi delle nostre patrie galere si ritrovano a pagare un sovrapprezzo non previsto in sentenza, a causa di mancanza di attenzione e responsabilità nei loro confronti, il loro essere sempre e solo vite a perdere per una società che non è in grado di integrare, soprattutto non coloro che hanno il torto di essere soprattutto poveri. E’ un baratro di cattiveria collettiva inaudito il carcere, con la sua strutturale impossibilità di garantire quel distanziamento sociale necessario ad evitare il rischio di contagio tra detenuti, personale che vi lavora e dunque collettività esterna, rappresenta la condizione ideale per il diffondersi del virus e il morbo da cui difendersi è ancora una volta il carcere stesso.
I dati nazionali della pandemia in carcere vedono 658 detenuti positivi, di cui 32 ricoverati in ospedale, 824 i contagiati della polizia penitenziaria e 65 tra i dipendenti amministrativi. Questo a fronte di spazi insufficienti per isolare i positivi, presidi sanitari carenti o inesistenti, buchi di organico della polizia penitenziaria. Per avere poi un’idea di quanto la crescita sia allarmante, basta ricordare che lo scorso 8 ottobre le cifre ufficiali diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlavano di 34 detenuti e 61 operatori di polizia contagiati. Su 192 istituti per adulti del nostro Paese, 75 sono stati colpiti dal virus. In 11 carceri si contano più di dieci casi per istituto, in 66 i positivi oscillano fra 1 e 9. Le situazioni più critiche a Napoli (Poggioreale e Secondigliano), Milano (San Vittore e Bollate), Alessandria, Terni e Larino.
La vulnerabilità sociale e la mancanza di risorse, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società, del disinteresse o peggio dell’odio nei loro confronti. Ciò si sta evidenziando anche in questo momento dell’emergenza pandemica, in cui il concorrere della limitatezza delle disposizioni di legge finalizzate a ridurre il numero dei reclusi e delle ristrettezze dei contatti con l’esterno, col pretesto di evitare il contagio, hanno confermato il prevalere di una cultura punitiva e discriminatoria, disconoscendo di fatto il criterio del distanziamento sociale.
Una volta di più, in occasioni come questa, si può cogliere la sensatezza dell’abolizione della prigione, perché il carcere è barbarie e i percorsi di sofferenza che produce sono evidenti e dannosi non solo per i soggetti coinvolti ma anche per la società.
Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della cattiveria di Stato, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di una soluzione non carceraria; questa situazione emergenziale per tutti, fuorché per i ristretti, lo evidenzia ancora maggiormente.
Non sprechiamo l’ulteriore occasione che abbiamo per vedere cosa sono veramente questi luoghi di tortura: aboliamo il carcere, che vuol dire scegliere percorsi di pace per ridare dignità alle persone che commettono reati, ridurre la sofferenza e la vendetta di questi luoghi disumani che alimentano solo l’odio, ridare ai condannati la responsabilità per quanto hanno commesso affinché possano essere messi in grado di produrre gesti di restituzione del danno, di riconciliazione e di reinserimento sociale.
Livio Ferrari
Portavoce “Movimento No Prison”