Detenuto: “sostantivo maschile – persona che sconta una pena detentiva”.
Numeri: ristretti nelle carceri italiane, stando ai dati riportati dal Ministro Bonafede in occasione del Question Time alla Camera, sono passati nelle prime tre settimane di marzo da 61.235 a 58.592; ciò a fronte di una capienza regolamentare, è bene ricordare, di 50.931 unità. Il vero problema di questa situazione emergenziale è che trattasi da anni della normalità della situazione carceraria italiana. Politici, giuristi, magistrati, si sono affannati ad esprimere il loro concetto sulla situazione della giustizia e dei detenuti in Italia e sulle possibili soluzioni del “problema carcere”. Hanno affrontato lo stesso in modo “matematico”, riducendo le persone detenute a semplici numeri certificando l’esistenza della nuova figura del’ “detenumero”. Trattasi non di un essere umano che ha una sua vita presente, un suo passato ma soprattutto dovrebbe avere un suo futuro, ma solo di un problema da risolvere in termini numerici. A mio parere proprio da tale interpretazione concettuale nascono gli equivoci e la delegittimazione di provvedimenti individuali della Magistratura di Sorveglianza e dei Giudici di merito, che conoscono giuridicamente, se si è molto fortunati personalmente i singoli detenuti e, di conseguenza, decidono della loro vita detentiva applicando da un lato le norme processuali ma dall’altro avendo la consapevolezza di valutare la singola posizione. Decidono così la vita detentiva di una persona che non inizia e finisce in uno stato di restrizione della libertà bensì che dovrebbe solo passare attraverso il carcere senza fermarsi lì. Anzi dovrebbe ricevere una spinta fortissima perché la società deve aiutare il condannato in quanto parte integrante di se stessa. Noi tutti “siamo” e non si risolve il problema indicando coloro che scontano una pena come coloro che “sono detenuti”. Una società può essere migliore soltanto nel momento in cui accetta di aiutare i condannati ancora di più se carcerati. Chi, come un avvocato, vive in prima persona il dramma della detenzione dalla sua genesi alla sua estinzione sa, e deve farlo sapere anche al proprio assistito, che è molto difficile proprio causa della struttura giudiziaria italiana passare da “detenumero” a “uomo” imputato/condannato. Un imputato, infatti, spesso non incontra mai il pubblico ministero che lo accusa, vede i propri giudici durante il processo per pochissimo tempo e sovente non viene ascoltato in quanto ha assurdamente diritto di mentire. Una volta che la sua pena è divenuta definitiva, forse ma dico forse, avrà la fortuna di incontrare il proprio magistrato di sorveglianza per pochi minuti. Di fronte a questa situazione giudiziaria umanamente tragica ascoltiamo discorsi sulla realtà giudiziaria e detentiva che pretenderebbero di essere logici, razionali e risolutivi. Non nego di apprezzare le proposte del dott. Colombo e Violante ma vorrei che vi fosse prima una grande rivoluzione: al centro del processo penale ci deve essere un uomo e non un “detenumero”. Solo allora potremo affrontare seriamente il problema della riforma giudiziaria e carceraria, con la consapevolezza di aver intrapreso la strada per una società che non potrà che essere evoluta.
                                                                      Avv. Giuseppe Capobianco
                                                                                                  Milano