Lunedì 27 aprile 2020: due ragazzi di 19 e 18 anni sono stati trovati senza vita in una abitazione di Colico, si spengono le loro speranze, i loro sorrisi, la loro voglia di spaccare il mondo.
Un frastuono che ha risvegliato la sonnolenta Colico, una comunità, un territorio, una generazione di adulti già scossa da un’emergenza pandemica del tutto nuova e che si ritrova suo malgrado una mattina raccolta nella triste immagine di due giovani corpi esanimi. Le reazioni sono tra le più disparate: chi si trincera sul tema del disagio giovanile e delle dipendenze, chi ha un pensiero per questi giovani e per le loro famiglie, chi si lascia trasportare dai ricordi e dai tanti perché, chi si scatena sui social a caccia di torbide informazioni al fine di biasimare le vittime a colpi di click. Biasimare la morte improvvisa e non cercata di due giovani poggia su continui errori di attribuzione: considerare questo evento luttuoso a partire da caratteristiche intrinseche dei soggetti senza alcuna valutazione degli altri fattori contestuali. Melvin Lerner ha avanzato l’ipotesi che il biasimo delle vittime sia favorito dalla distorsione da “preconcetto del mondo giusto”: se il mondo in modo preconcetto è un luogo sicuro, coloro che sono incorsi in gravi disgrazie debbano pertanto meritarle. Cosi alcuni commenti sui social, prontamente rimossi dagli amministratori, recano già la sentenza: “se la sono cercata quei due!”
Perché scrivo? Conoscevo uno dei due ragazzi perché era stato inserito, anche se per breve tempo, in un programma di supporto per giovani con fragilità: faccia pulita da bravo ragazzo, battuta pronta, sorrisetto furbo di chi la sa lunga, le pizze impastate con maestria, la chiacchiera spigliata e una corazza costruita nel tempo che si sgretolava sistematicamente davanti alla fragilità e instabilità delle scelte. Scrivo perché mi sento coinvolta emotivamente provando delle sensazioni e pensando che si sarebbe potuto fare di più per questo giovane.
Sei andato via lasciando rumore, quello stesso rumore che tu e altri usate per riempire le giornate vuote, scolorite, prive di identità dove nel silenzio delle vostre solitudini ritornavano quelle paure da soffocare: il vuoto, il futuro incerto, punti di riferimento evanescenti, il timore dei fallimenti, la sensazione di costante disvalore di sé, la sfiducia nel cambiamento, gli adulti distanti talvolta disattenti e stanchi, la diffidenza verso i professionisti delle relazioni d’aiuto visti talvolta come alieni, altre volte come amici, a volte ancora come risorse.
Chi resta in vita si chiede cosa potevamo fare per te? Noi operatori ci chiediamo che cosa possiamo fare per gli altri ragazzi che non erano quella sera con te ma avrebbero potuto essere al tuo posto.
Ero la tua operatrice… cosa vuol dire essere un operatore delle relazioni d’aiuto? La presunzione narcisistica di voler per forza aiutare dando senso al proprio operare? oppure cercare il senso del proprio lavoro giorno per giorno, costruendolo nel quotidiano con i giovani con cui condividiamo un caffè al bar o una chiacchierata al lago tra risate, speranze, paure. Quel senso cambia continuamente ogni volta che noi operatori entriamo nelle vostre case, nelle vostre vite, quando dentro le vostre abitazioni guardiamo i vostri genitori negli occhi e vediamo i vostri sguardi, quelli dei vostri amici, ogni qual volta facciamo un passo nei vostri spazi e territori, ogni volta che vi accompagniamo in un Servizio di Tutela o ad un Sert.
Con un atto di umiltà riconosciamo che gli esperti delle vostre vite siete voi e siete solo voi a darci il permesso di entrare. L’Associazione Comunità il Gabbiano da diversi anni si occupa del tema del disagio giovanile che è apparso sempre più pregnante nei vari progetti sul territorio. Cosi noi operatori ci ritroviamo a interagire con ragazzi segnalati da anni, o interi sistemi familiari in carico a servizi talvolta irrigiditi da burocrazia, gerarchie, dalle norme e dal numero di cartella, scanditi dalla logica rigida degli appuntamenti e dalle scadenze, dai decreti, dal turn over. Questo ci porta a riflettere sugli strumenti istituzionali in campo che appaiono talvolta inadeguati o insufficienti rispetto al tema giovani. Arriviamo noi operatori del Gabbiano, senza uffici o setting rigidi, in giro per i territori muniti della nostra buona volontà, intraprendenza, stracarichi di intenti e di azioni di “pancia” e ci sediamo sulle vostre panchine, alle vostre tavole e impariamo a conoscere anche come sono arredate le vostre stanze o di che colore è il vostro scooter. In quei momenti la sottoscritta sente che il cuore del lavoro è la relazione, è l’esserci: si abbattono cosi muri e i ragazzi con onestà ti sputano in faccia tutta la loro rabbia e delusione.
Rabbia verso servizi o istituzioni che non li ascoltano e non si ascoltano tra loro, come compartimenti stagni; rabbia verso quegli adulti vicini che talvolta condannano e puniscono pensando che questo serva da monito assoluto; rabbia verso noi operatori che rincorriamo questi giovani a noi affidati nell’ansia di portare a termine un progetto o percorso educativo. Talvolta come operatrice mi sono interrogata sul mio sentirmi schiacciata tra la necessità di stimolare un giovane all’adesione ad un percorso educativo predisposto secondo i tempi e le richieste che avanzano le istituzioni e il bisogno di chiedere al giovane di cosa lui ha veramente bisogno!
Oggi al telefono un assistente sociale rifletteva con me sul fatto che le storie difficili di alcuni giovani sembrano somigliarsi molto come alcuni tristi destini che sembrano ripetersi e contagiare gruppi interi di ragazzi: storie di dispersione scolastica, di famiglie lontane o conflittuali, storie di noia e sperimentazione di sostanze come forma di evasione da un territorio spesso povero di risorse arricchenti. Questi giovani con cui lavoro spesso si conoscono tra loro: hanno sempre le stesse frequentazioni e portano in forme diverse lo stesso malessere: eppure ognuno di loro mantiene la sua unicità.
Spesso mi arriva nel mio operare un continuo oscillare in questi giovani tra ricerca di esperienze di intimità e alienazione, la sperimentazione di sensazioni corporee di piacere o dolore, la ricerca spesso ardua di una costruzione e consapevolezza di sé intesa come quello spazio tra me e l’altro. Nei loro racconti si trovano talvolta sensazioni di vuoto pervasivo e tentativi disperati di riempirlo mediante la ricerca di stimoli: alcool, sostanze psicotrope, persino furti e altri piccoli reati per il piacere temporaneo della trasgressione, di sentire sul corpo emozioni e piacere che possano avvicinare al gruppo dei pari. Altre volte si raccontano storie di tentativi precoci di adultizzarsi e provvedere a sé stessi per allontanarsi da un sistema familiare in difficoltà. La ricerca di esperienze dissociative allora aiuta a diminuire il senso del sé amplificando il senso di estraneità e di irrealtà del mondo circostante sempre più lontano e alieno. Le loro storie talvolta raccontano di disconnessioni con il mondo delle relazioni, di continue disconferme da parte di familiari o professori, mancate risonanze emotive con gli affetti, disarmonia tra il proprio mondo interno e la risposta sociale: sono narrazioni di fallimenti progettuali. Eppure io vedo giovani capaci, intelligenti, con idee, voglia di vivere e di fare. Quale è lo scarto che non dà la possibilità a questi ragazzi di realizzarsi come uomini e donne autoefficaci?
Come adulti abbiamo fallito nel costruire un dialogo?
Come professionisti abbiamo la possibilità di chiederci cosa possiamo offrire, provando ad aprire un dialogo a doppio livello con i ragazzi spesso disillusi e con quei servizi o istituzioni a loro dedicati: poter camminare insieme al fine di co-costruire intenti e modi di lavoro condivisi e finalizzati ad offrire spazi altri sui territori, risorse e modelli positivi.
In questo momento ci troviamo ad affrontare un isolamento generale, in cui noi realtà educative abbiamo dovuto comunicare ai giovani con cui lavoriamo il messaggio della necessità di stare a casa e proteggersi non entrando in contatto con gli altri: mi sono così trovata paradossalmente nella necessità di dover promuovere “quelle solitudini o ritiri sociali” forzati, che fino a qualche mese fa abbiamo sempre con i nostri progetti e attività provato a contrastare. Solitudine e isolamento sono forieri di rischi che abbiamo cercato di arginare: in primis contribuiscono all’emergere di condizioni di disagio. I processi di separazione e individuazione si costituiscono in relazione agli altri, ma oggi quella relazione è venuta meno, limitando la possibilità di differenziarsi o imitare, se tutti i rapporti sono mediati da uno schermo. Abbiamo così invitato i giovani a stare a casa intendendo questo spazio come luogo accogliente e sereno, connesso alla rete, con adulti in grado di accompagnare questo difficile momento. La realtà dei fatti narra di storie differenti: si pensi a quelle case in cui saltano anche gli equilibri familiari, da un lato per l’angoscia di veder soffrire i propri cari e dall’altro per la perdita di stabilità affettiva o economica; provate a pensare ai giovani con genitori violenti o semplicemente in appartamenti di dimensioni ridotte, in case fatiscenti di periferia; a quelli che vivono in comunità, ai ragazzi con difficoltà cognitive, psichiche e comportamentali. Hanno chiuso le scuole, i centri aggregativi, i locali, i bar, gli oratori, i campi sportivi, le palestre, i parchi, tutti i luoghi, insomma, in cui i ragazzi si sperimentano con gli altri. Entra in gioco anche una riflessione sui giovani e il loro rapporto con le regole spesso caratterizzato da momenti di sconfinamento, di trasgressione, di messa in discussione dell’autorevolezza della credibilità di adulti e istituzioni. Nel momento in cui la pressione sociale sul rispetto delle regole di isolamento è così elevata, è lecito pensare che adolescenti e giovani nel tentativo di reprimere aspetti di vitalità possano non reggere più tale dimensione domestica.
Come Associazione abbiamo deciso di ripensare al nostro agire attraverso servizi educativi-psicologici rivolti a giovani trasferendoli su canali on-line per poter svolgere la nostra funzione in questo scenario complesso, che evidentemente ha spiazzato tutti, noi per primi. L’intento è anche virtualmente di contrastare solitudini e rompere silenzi. Il nostro compito è quello di aiutarli in questo percorso, ma chiaramente oggi è difficile trovare le risposte necessarie per il futuro in ciò che fino ad ora siamo stati abituati a fare.
Gabriel García Márquez al termine del suo libro “Cent’anni di solitudine” scrive che le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avranno una seconda opportunità sulla terra: proprio come i due ragazzi che non avranno purtroppo un’altra occasione. Noi operatori invece abbiamo l’opportunità e il dovere di riprovarci.
Jenny Vendra
Psicologa e Psicoterapeuta
Psicologa e Psicoterapeuta
Colico 29.04.2020