In seguito alle morti di detenuti nelle carceri italiane durante i disordini per il #COVID19 il Maestro Moni Ovadia è tra i primi firmatari per un comitato per la verità e la giustizia che faccia luce su quanto è accaduto negli istituti. 

VERITÀ E GIUSTIZIA
per Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan, morti in stato di detenzione a seguito dei disordini nelle carceri del marzo 2020

Il Ministro della Giustizia e il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rendano noti i luoghi e le circostanze del decesso di ciascuno e i risultati delle autopsie. Subito!

EDITORIALE

La verità sulle morti in carcere. Le voci di dentro

«Riguardo al trasferimento dal carcere di Modena durante la rivolta, lui ha visto PESTARE A MORTE alcune delle persone decedute. Le sue parole sono state queste, al telefono: “A me non hanno fatto niente, ma ho visto coi miei occhi, non sono morti per il metadone, li hanno ammazzati, coi manganelli!”».

Come troppo spesso accade, quando si tratta di carcere, anche noi non abbiamo la possibilità di fare i nomi e i cognomi di chi ci contatta per trasmetterci una richiesta o un grido, di dolore e di denuncia. Non abbiamo questa possibilità non necessariamente per mancanza di informazioni, ma perché chi ha una persona cara detenuta esige di non esporla al rischio di pagare le conseguenze di questo grido.
Preoccupazione che vale anche in questo caso, dove sono evidenti le ragioni di chi sa e racconta, con la cautela dell’anonimato, comprensibile, proprio come invece è da censurare e da denunciare la reticenza, per non dire peggio, delle istituzioni.
Dunque sappiamo che la testimonianza che qui riportiamo rischia di “non aver valore” sotto il profilo dell’azione penale contro gli eventuali responsabili di quelle morti. Ma non possiamo tacerle. Sia perché è giusto che vengano risapute e magari – ma ci rendiamo conto che è una speranza poco fondata – riprese dai media che invece, sinora, anche in questo caso hanno perlopiù scelto il silenzio o accettato senza batter ciglio le versioni omissive – anche qui per non dir di peggio – del ministro competente. Sia perché abbiamo fiducia – in questo caso un po’ più fondata – che chi ha ruoli e poteri, magari minimi, si attivi per la sua parte per approfondire e ricercare la verità. Ad esempio, i Garanti territoriali hanno la facoltà di rintracciare e andare a sentire i detenuti trasferiti da Modena, e raccoglierne le testimonianze, così come hanno la prerogativa di pover visionare i risultati delle visite mediche che per regolamento devono essere effettuare ai detenuti in ingresso in un istituto. Lo stesso, con ancora maggiori strumenti, hanno potere – e dovere – di fare i magistrati inquirenti e quelli di sorveglianza.
In questo senso la testimonianza che proponiamo – la prima che arriva alla luce – ne ha molto, di valore, soprattutto in un momento in cui ancora della verità giudiziaria, quella con tutti i crismi del diritto, siamo privati, nonostante le settimane trascorse: siamo ancora in attesa di sapere l’esito delle 13 autopsie. E, oltre alle indagini in corso della procura, l’Amministrazione Penitenziaria non si è ancora sentita in dovere di svolgere e rendere pubblica alcuna indagine interna.
Si moltiplicano in questi giorni notizie sulle violenze istituzionali seguite alle proteste: ne parlano le associazioni che si occupano di carcere e diritti, ne parlano i social media che ospitano le parole di famigliari, parenti e detenuti riprese e diffuse da altre associazioni o gruppi. Tanto che c’è stata, il 3 aprile scorso, l’interpellanza al ministro della Giustizia dell’onorevole Magi, che esplicitamente chiede, oltre alla trasparenza sulle 13 morti, anche «se il DAP abbia avviato delle indagini interne sui pestaggi denunciati da Antigone». C’è stata anche una denuncia circostanziata, con nome e cognome, a Milano, che speriamo sarà attentamente vagliata e valutata.
Nell’interrogazione Magi riprende integralmente e rivolge al ministro le domande da noi formulate nella precedente newsletter. Speriamo che almeno lui possa ottenere risposte, pur tardive, dal Guardasigilli.
Questo è il paese dove è morto, ucciso, Stefano Cucchi: nessuno può accusare nessuno di coltivare una cultura del sospetto. Questo è il paese dell’opacità e dell’omertà, dove la verità ha avuto bisogno di una sorella e di una famiglia tenaci e dieci anni di battaglie, tra insulti e minacce. Nessuno può accusare nessuno se grida per avere verità e giustizia.
Hafedh, Erial e gli altri non avevano, qui, una sorella e una famiglia. Non di meno meritano verità e giustizia.
Noi ci auguriamo che chi può si faccia avanti e testimoni su quanto avvenuto in quei giorni. Ma, intanto, ogni voce va raccolta e ascoltata.
MONI OVADIA
«Ancora una volta non si rispetta la Costituzione del nostro Paese. La Costituzione repubblicana detta norme il cui senso è molto preciso riguardo la vita umana, ogni singola vita umana. E anche ci guida a capire che non c’è democrazia senza trasparenza e senza verità. Non si possono accettare opacità, tutto deve essere portato alla luce nei dettagli, in particolare per persone che si trovano sotto la custodia di un organismo dello stato. Proprio lì la loro sicurezza e eventuali problemi che accadono devono essere specificate con la massima trasparenza, la massima verità nella sequenza dei fatti e anche il massimo numero di dettagli ».
Il maestro Moni Ovadia, tra i primi firmatari dell’appello per un Comitato per la verità e giustizia sulle morti in carcere, interviene con un video per ribadire con forza e perentorietà la richiesta di una verità dettagliata sulle morti di persone detenute seguita alle proteste nelle carceri avvenute in marzo. Una verità e una trasparenza che dopo settimane ancora latita, nel silenzio del ministro e delle istituzioni penitenziarie e nella distrazione dei media.

Clicca qui per guardare il video

INTERPELLANZA PARLAMENTARE
INTERPELLANZA AL MINISTRO BONAFEDE
presentata dall’On. Riccardo Magi del 03/04/2020

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della Giustizia per sapere – premesso che:
– sono passate tre settimane dalla morte in diverse carceri italiane di 13 detenuti a seguito delle rivolte nate contro la mancanza di informazione e di gestione della crisi dovuta alla pandemia da Covid-19;
– una protesta che ha avuto alcune espressioni violente, ma che ha coinvolto oltre seimila detenuti;
– solo dopo molti giorni si sono saputi i nomi dei detenuti morti, e le cause e dinamiche sono tuttora ignote, nonostante le richieste di trasparenza emerse sia dalla società civile, dal Garante Nazionale e dai garanti territoriali dei diritti delle persone detenute e dagli organi di stampa;
– l’11 marzo Lei ha svolto un’informativa urgente alla Camera e al Senato sui gravi fatti accaduti in alcuni penitenziari nella quale ha affermato che il tempo che le era concesso non le consentiva di riferire nel dettaglio dei singoli casi in ogni città, pertanto avrebbe trasmesso il giorno stesso una relazione dettagliata del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria;
– da tale relazione non si evincono le informazioni più importanti relative a quegli episodi ma solo notizie sommarie riportate anche dagli organi di stampa;
– l’Associazione Antigone ha denunciato di aver ricevuto numerose segnalazioni di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute successivamente alle rivolte; in particolare nell’istituto di pena di Milano-Opera, diverse persone si sono rivolte all’associazione raccontando quanto sarebbe stato loro comunicato dai congiunti o da altri contatti interni, e le versioni riportate, le quali parlano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche persone anziane e malati oncologici e gravi contusioni delle persone coinvolte, risultano tutte concordanti;
– sul caso di Milano-Opera, l’associazione ha inviato un esposto alla procura competente, e si appresta a farlo anche per altri istituti;
– nel corso del question time del 25 marzo scorso, con riferimento alle misure di cui agli articoli 123 e 124 del decreto legge n. 18 del 2020, lei ha affermato che «il numero degli effettivi destinatari della nuova legge è di 6 mila detenuti circa non condannati per reati cosiddetti ostativi e con pena residua fino a diciotto mesi, oggi già tutti potenzialmente destinatari della precedente n. legge 199 del 2010, e che dipenderà da diversi requisiti e variabili, come, per esempio, il domicilio idoneo, che dovranno essere accertati dalla magistratura» e che, a tale data, circa cinquanta detenuti avevano beneficiato della misura di cui all’articolo 123; 150 detenuti sarebbero stati interessati dalla concessione di licenze in virtù dell’articolo 124 del decreto-legge n. 18 del 2020.
Come da lei specificato, «si tratta di detenuti già ammessi al regime di semilibertà che durante il giorno si trovavano già fuori dalle carceri e non vi rientrano più la notte»;
– il provvedimento del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria d’intesa con il capo della Polizia che attua il decreto sopra citato afferma che il Dipartimento della Pubblica Sicurezza rende disponibili complessivi 5.000 braccialetti elettronici, di cui 920 alla data della firma del documento, avvenuta il 27 marzo; il provvedimento interdipartimentale prevede inoltre l’installazione di un massimo di 300 apparecchi a settimana;
– con il numero di installazioni attualmente previste, gli ultimi detenuti usciranno dal carcere infatti tra oltre tre mesi, quando auspicabilmente la fase acuta legata al diffondersi del Covid-19 sarà già ampiamente alle spalle.
L’interrogante chiede di sapere:
– quali siano le cause della morte per ognuna delle 13 persone decedute, come accertate dalle autopsie, e nello specifico, ove dovute all’assunzione di farmaci, quali farmaci siano stati assunti e se fossero opportunamente custoditi, se il personale penitenziario fosse formato al riconoscimento e al soccorso in caso di overdose e se vi fosse disponibilità, accesso e formazione all’uso dei farmaci salvavita;
– quante morti siano avvenute nei luoghi della protesta e quante durante o a seguito delle traduzioni ad altro carcere, dettagliando luoghi, circostanze e tempistica;
– se prima del trasferimento ad altro carcere i detenuti siano stati sottoposti a visita medica, anche considerando l’avvenuta sottrazione di farmaci dall’infermeria;
– se il DAP abbia avviato delle indagini interne sui pestaggi denunciati da Antigone;
– quale sia il dato aggiornato relativo al numero di detenuti che abbiano beneficiato delle misure di cui agli articoli 123 e 124 del decreto legge n. 18 del 2020; alla luce delle informazioni riportate in premessa, come possano le misure recate dal decreto legge n.18 del 2020 rispondere alla necessità di incidere sul sovraffollamento carcerario in modo da rispettare anche nelle carceri le norme sul distanziamento.
INTERVENTI
Travagli e travagliati
di Adriano Sofri

L’ironico caso di Travaglio, Bonafede eccetera (e, rispettosamente, Gratteri) in pensiero per i detenuti

C’è un’ironia nella storia, anche quando si incanaglisce. Prendete Marco Travaglio. Il fatto è questo: Travaglio è ora angosciato dall’eventualità che la pandemia infierisca nelle galere, e speranzoso che risparmi i detenuti. Non è magnifico? Travaglio (vedremo gli epigoni) ha deciso di sfidare la sorte sostenendo che non c’è luogo più sicuro dal contagio delle prigioni. La logica è dalla sua (la sua logica): non c’è luogo più isolato, più recluso, del carcere, dunque stiano là e si godano il loro privilegio di perenne quarantena. È perfino oltraggioso replicare: il carcere, che accatasta i suoi inquilini fissi gli uni sugli altri, accoglie quotidianamente un buon numero di persone il cui piede libero le porta dentro e fuori: agenti di polizia penitenziaria, direttori e direttrici e funzionari e impiegati, sanitari, medici e infermieri, infermiere e dottoresse, educatrici ed educatori, cappellani e suore, avvocati, a volte (troppo raramente!) magistrati, eccetera. Anche quando, come adesso, sono vietate le visite dei famigliari dei detenuti e gli ingressi dei preziosi volontari, il virus, svelto com’è, ha dunque una quantità di passaggi di cui servirsi per sgattaiolare dentro. Dentro, fra promiscuità indecente e vulnerabilità fisica e psichica, gli è promessa una pacchia. E una volta che arrivi, e muti la prigione, che è già un nosocomio di ogni patologia, infettive specialmente, in un vero lazzaretto, la prigione saprà restituire il contagio al mondo esterno, coi piedi liberi e le mani e le goccioline degli entrati, con gli interessi. Questa l’ovvia constatazione. Avendola ignorata e anzi intrepidamente capovolta, Travaglio deve pregare che i capricci del destino o del virus (coincidono, del resto) non lo sconfessino, dimostrandolo un’ennesima volta rosicchiato dalla malevolenza, oltre che stupido: dunque eccolo che si augura la salute dei detenuti, le sue bestie nere (Davigo docet: non ci sono innocenti, ci sono solo colpevoli non ancora scoperti – tranne Davigo, immagino). Bene, eccomi dunque associato a Travaglio nell’augurio. Naturalmente, io prego davvero che ai detenuti, in attesa di giudizio o dannati, colpevoli o innocenti, vada meglio che può, e ho una mia doppia ragione, cui Travaglio è inetto, una di universale solidarietà umana, un’altra di intima fraternità, la memoria viva di un viaggio comune.
Un’analoga ironica considerazione può farsi per i più esposti consoci di Travaglio nell’anima trista. Sono Alfonso Bonafede, che gli scherzi della storia hanno fatto svegliare una mattina nel suo letto – orrore! – mutato in ministro della giustizia, e sulla scia il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, il Procuste secondo il quale il sovraffollamento andava superato riducendo i centimetri regolamentari per detenuto, e qualche altro. La stessa insensata argomentazione è stata svolta dal Procuratore Nicola Gratteri, nei confronti del quale sono, oltre che dispiaciuto, più prudente: nessuno può dimenticare che cosa si era detto contro Giovanni Falcone finché (per poco) restava in vita. Qualunque impressione si abbia del merito di opinioni e azioni di Gratteri, è un uomo esposto all’odio di farabutti, e merita rispetto. Rispettosamente, gli chiederei di ripensare all’assurdità dell’idea che le galere siano un luogo riparato dal contagio: le galere sono, in una pandemia, il luogo più somigliante alle case di riposo. Gli chiederei di ripensare anche all’assurdità di ripetere il suo desiderio (“Se fossi io il ministro della Giustizia…”) di costruire quattro galere da 5.000 posti l’una e buonanotte: anche a non frugare dentro quel desiderio, non ha alcun senso riproclamarlo quando le vecchie galere sono là e il virus ci è già entrato e sta per banchettare.
Non sono pochi, soprattutto fra gli addetti ai lavori, come si dice, coloro che si ricordano della Costituzione e si rendono conto del rischio umano e civile che sta dentro la questione del carcere, in Italia e fuori. Per un Bonafede che in parlamento vanta come un astuto raggiro gli ostacoli frapposti al sedicente provvedimento per “alleggerire” l’affollamento – “ne sono usciti solo 50…” – ci sono magistrati di sorveglianza responsabili che usano le possibilità che la legge offre e anzi consiglia loro. Ci sono agenti penitenziari e loro organizzazioni che sanno di che cosa parlano, e che difendere sé, la propria salute e la propria dignità coincide largamente con la difesa dei carcerati. Ci sono alti magistrati che esortano a fare altrettanto, come il Procuratore Generale di Cassazione o l’ex Procuratore di Milano. C’è un magistrato che si è accorto che se si impone a un popolo di tenere la distanza reciproca di un metro, pena la vita comune, bisogna che la cosa valga anche per chi sta in carcere, detenuti e agenti. Ci sono membri illustri del Consiglio Superiore della Magistratura. Ci sono magistrati insidiati dalla notorietà che non temono di usarla come Dio comanda. Ho dimenticato il Papa? No, io no, quegli altri sì.
Ma mi resta da trattare di un altro argomento dei “duri” – Travaglio il duro: un pusillanime da esposizione – ma che suggestiona anche giornali che si vogliono autorevoli. La ribellione dei detenuti, i due giorni che incendiarono le carceri e lasciarono tredici detenuti morti e molti più feriti, viene ora meticolosamente certificata come la cospirazione della malavita organizzata – “la ndrangheta prima di tutto, ma anche la camorra, Cosa Nostra e la mafia foggiana in Puglia” (così un giornalista del Fatto, 4 aprile). Anzi, come se non bastasse questa formidabile alleanza fra tante multinazionali del crimine, si è “innestata anche un’altra matrice: quella degli estremisti – soprattutto anarchici – che a livello ideologico sono sempre disponibili a sovvertire l’ordine, anche se si tratta solo di una breve rivoluzione interna al penitenziario”. Oplà. Gratteri, che sposa senz’altro questo scenario, dice che “alle 10 di mattina” la rivolta è scoppiata a Modena e a Foggia. Non è vero, naturalmente, e fa sorridere, la rivolta delle 10 di mattina, regolate gli orologi. Fra i carcerati di Foggia, legati soprattutto alla piccola e grande criminalità locale, e quelli di Modena, soprattutto stranieri e disgraziati, non c’era nessuna affinità. Per confermare la regia simultanea Gratteri sostiene che le carceri sono piene di telefonini. Davvero? A volte si scoprono telefonini introdotti clandestinamente: le perquisizioni sono continue in carcere, almeno quanto le soffiate. Nel febbraio del 2019 successe addirittura che un detenuto argentino, cinquantenne, rientrasse da un permesso nel carcere di Trapani e fosse scoperto da una radiografia con quattro telefonini cinesi ingoiati: impresa notevole, che infatti fece notizia. Dire che le prigioni pullulino di telefonini è surreale. Ma l’idea che le rivolte in carcere, l’evento più contagioso che si possa immaginare fra gli animali umani, siano il frutto di una “regia occulta”, vuol dire non sapere e non saper immaginare niente di che cos’è il carcere. Quello che si chiamò “Radio carcere” (e che simili cronache paranoiche citano senza badare alla confusione con l’omonimo programma benemerito di Radio Radicale, fautore di nonviolenza) è la comunicazione caratteristica dei luoghi chiusi ed estremi, di nocche battute e orecchi posati sui muri, di canzoni adattate, di saluti fra finestroni blindati e parenti, e ormai di vere radio e televisori. E la prossimità temporale, l’incendio che divampa in due o tre giorni, è il frutto di un’accumulazione combustibile sulla quale cade finalmente una scintilla: e la scintilla qui era, sul sovraffollamento, sulla malattia, sulla miseria igienica, l’avvento del panico dell’epidemia, per sé e per i propri cari di fuori, la sensazione di finire come topi, la sospensione dei carissimi colloqui e degli altri tramiti con il mondo. C’era bisogno di una regia? I protagonisti delle rivolte sono stati – “per lo più”, formula che dice di Bonafede, Dio lo perdoni – detenuti di basso rango, di corte pene, a volte ancora senza condanna, come succede. Quando in carcere si scatenano disperazione ed esasperazione tanti detenuti smettono di colpo di comportarsi come individui, perdono insieme indipendenza personale ed egoismo, e si lasciano travolgere in una furia che saranno i primi a pagare, come i morti – di overdose, “per lo più”, o in altri modi ancora da conoscere – e come i superstiti, sui quali si accanirà la vendetta. Saranno esclusi da ogni possibile “beneficio” legale, e anzi saranno puniti: per aver dato vita (ammesso che davvero l’abbiano fatto) a una ribellione che veniva annunciata come inevitabile e imminente da chiunque seguisse lo stato delle carceri, gli agenti per primi. Un altro trionfo della logica. Nel servizio del Fatto che ho citato, quello che smaschera il complotto ordito da mafie ed anarchici di ogni ordine, c’è un quasi commovente culmine logico: che le uniche carceri in cui sono stati tutti fermi e buoni, dice, sono quelle calabresi. Dunque, visto che non si sono ribellati, erano i burattinai delle ribellioni altrui. Figuratevi se si fossero ribellati. Lucus a non lucendo, dicevano i latini. Certo che i vecchi boss possono bearsi delle rivolte allo sbaraglio dei poveri cristi, ma di qui a programmarle, oggi, corre un mare. I carcerieri sanno che episodi disperati, autolesionismi, gli stessi tentati suicidi sono più caratteristici delle sezioni giudiziarie, dove stanno i detenuti ancora in attesa di giudizio, i pesci piccoli, i giovani stranieri da poco.
Questo il quadro. Vedremo il seguito. Mi auguro che il male che minaccia le persone che vivono in carcere sia il minore possibile. Sorrido dunque, amaramente, di questa bastarda prossimità fra me e Travaglio e la muta dei suoi, che se lo augurano anche loro, per non dover render conto.
Fonte: Conversazione con Adriano Sofri (il titolo è redazionale)

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Morire in carcere a 22 anni. A Udine notizia nascosta per giorni, ora la verità
di Franco Corleone

La morte di un giovane detenuto nel carcere di Via Spalato il 15 marzo è stata tenuta nascosta per molti giorni non per caso. Forse si temeva che la tensione presente nelle carceri per il rischio legato al corona virus potesse esplodere di fronte a una tragedia inspiegabile o forse si è trattato del riflesso sempre presente per cui il carcere è una zona franca rispetto al diritto.

Il dovere della trasparenza fa fatica a essere accolto come principio essenziale perché il carcere sia aderente ai principi della Costituzione.

Ho ricostruito con l’aiuto dell’avv. Marco Cavallini la vicenda giudiziaria di Ziad DzhiKrizh. L’accusa era di spaccio di sostanze stupefacenti legato a un episodio avvenuto a Udine nell’aprile del 2017; la cessione di pastiglie di Mdma aveva provocato la morte di un giovane ghanese e quindi oltre all’imputazione sulla base dell’art. 73 del Dpr 309/90 (la legge antidroga) vi era anche l’imputazione dell’art. 586 del Codice penale (lesioni o morte come conseguenza di altro delitto, quale conseguenza non voluta dal colpevole).

Krizh si era trasferito in Francia e fu arrestato con un mandato di cattura europeo nell’agosto 2019 a Parigi e tradotto in Italia in custodia cautelare. Il processo si concluse con rito ordinario il 3 dicembre 2019 con una condanna complessiva a 8 anni e sei mesi di detenzione (sei anni per l’art.73, primo comma; due anni per reati continuati e sei mesi per l’omicidio colposo). Un processo rapidissimo in cui la prova della detenzione e dello spaccio era affidata alla sola testimonianza raccolta nella fase delle indagini di una giovane donna assente nel processo perché deceduta nel frattempo.

La proclamazione di innocenza manifestata da Krizh non fu accolta e il difensore il 28 febbraio aveva depositato i motivi dell’appello che si sarebbe svolto nei prossimi mesi. La morte interrompe la vicenda giudiziaria, ma resta la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 della Costituzione.

La perizia è stata affidata al dr. Carlo Moreschi che è riconosciuto unanimemente per capacità e scrupolo e si attendono i risultati soprattutto per una verifica sull’assunzione la sera prima del decesso di psicofarmaci e in particolare di dosi eccessive di metadone e subutex come paventato da alcune fonti

L’avv. Cavallini è stato nominato legale della famiglia e chiederà alla Procura di fare chiarezza su che cosa è accaduto nelle due ore tra il malore e la morte nella mattina di domenica 15 marzo.

Chi ha soccorso il giovane? I compagni di cella a che ora hanno dato l’allarme? Sono intervenuti agenti della Polizia Penitenziaria? Il medico di guardia era presente? La rianimazione è stata fatta manualmente o con defibrillatore?

Sono interrogativi che serviranno a rendere meno oscura la vicenda anche se non leniranno il dolore della madre che aveva parlato con il figlio proprio il giorno prima.

“Morire in carcere” era il titolo di un articolo di Maurizio Battistutta scritto nel 2012 in seguito a due morti, una per suicidio, avvenute nel carcere di Udine e riprodotto nel suo volume di scritti intitolato “Via Spalato. Storie e sogni dal carcere di Udine” (edizioni Menabò) di cui consiglio la lettura per gli stimoli di riflessione che offre. Nel 2018 si sono ripetute due tragedie; una transessuale e un giovane pakistano si sono suicidati nello stesso Istituto.

Una lunga scia di morte assolutamente insopportabile.

 

NOTIZIE
Rapporto europeo sulle carceri
È uscito il nuovo Rapporto Space I del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria, Prison Population 2019, aggiornato al 25 marzo 2020. Il rapporto include dati sulle presenze e le caratteristiche delle persone detenute, sulle posizioni giuridiche e la durata delle pene, sugli istituti penitenziari, la loro capienza, i loro costi. È un documento utile anche per un raffronto tra la situazione italiana e quella di altri paesi dell’Unione.
Per esempio: la densità (indicatore di affollamento, n. detenuti per 100 posti) è di 118,9 per l’Italia, valore più elevato dopo Belgio (120,6) e Turchia (122,5), contro una media UE di 87,1; il rapporto tra detenuti e personale di custodia in Italia è di 1,7, molto più favorevole della media dei paesi europei (2,6); per quanto concerne le morti dietro le sbarre (dati 2018), sono un totale di 161, di cui nessun omicidio, 61 suicidi (37,9% del totale delle morti contro il 23% UE) e 100 morti naturali, dato anche quest’ultimo, come quello dei suicidi, allarmante. Il tasso dei suicidi ogni 10mila detenuti è in Italia del 10,1, quello europeo del 7,2.
Link al Rapporto

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Vite a perdere. Un lungo elenco di morti in cella
L’Italia è seconda solo alla Colombia e vicina al Venezuela: non per morti da COVID-19 in carcere, ma per persone detenute morte durante o dopo le proteste per la disperazione e la mancanza di risposte da parte delle Amministrazioni penitenziarie

I nomi dei detenuti morti in seguito alla repressione delle rivolte:

Colombia (23)

Pedro Pablo Arevalo Rocha, Jesús Hernesto Gomez Rojas, Cristian David González Linares, Jhon Fredy Peña Jimenez , Daniel Alfonso Gonzalez Espitia , Miguel Angel Lemos Roa, Fredy Alberto Díaz Rodríguez, Édgar Alejandro Gómez Romero, Milton Yesid Rodríguez Álvarez, Cirus David Rojas Ospina, Diego Fernando Rodríguez Peña, András Felipe Melo Sánchez, Michael Alexander Melo Cubillos, Brandon Eduardo Avendaño Quevedo, Euclides José Pérez Espinoza, Yeison David Galvis Forero, Campo Elías Carranza Sanabria, Diego Andrés Rodríguez Fuentes, Joaquín Mejía Aguirre, Henry Humberto Gómez Méndez, Eberzon Palomino Hernández, José Ángel Hernández Páez, Daniel Humberto Carabaño Plazas

Italia (13)

Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan

Venezuela (12)

Luis Ángel Ibáñez López (23), Yerferson José Mendoza Churion (21), José David Sánchez Zambrano (26), Gervin Joel Pacheco Villegas (25), Ángel Alberto Chourio Olmos (24), Luis Carlos Dita Jiménez (26), Eugli José Prado Figueroa (35), César Emilio Guerrero Urdaneta (23), Erson Jail Rojas Pabón (26), Roger Fran Figueroa (44). Mancano due nomi che le autorità devono ancora rendere pubblici.

Argentina (5)

Alan Matías Miguel Montenegro (23), Matías Gastón Crespo (31), Andrés Ezequiel Behler (23), Rolando Duarte (60), Jonatan Exequiel Coria (29), en Las Flores.

Perú (3)

Mauricio Fernández Antagory, Juan Garcia Melendez, Marino Fernandez Guatacaré

Sri Lanka (2)

Mancano i nomi

Fonte Simone Scaffidi, il manifesto, 7 aprile (link)

719 ADESIONI PER LA VERITÀ, LA TRASPARENZA E LA GIUSTIZIA
  • Sono 719 le persone che, al 10 aprile 2020, hanno dato il loro sostegno al Comitato per la verità e la giustizia sulle morti nelle carceri avvenute nei giorni delle proteste scoppiate l’8 marzo scorso.
    Tutte le adesioni sono visibili e man mano aggiornate alla pagina web: https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello
  • Alla stessa pagina si può continuare ad aderire. (PASSATE PAROLA! )

    Voi 718 potete….

  • Servono informazioni dai luoghi teatro di questa tragedia; servono storie di chi l’ha vissuta e la sta vivendo; servono contatti con famigliari, amici, volontari, avvocati cui il Comitato può dare parola in prima persona; serve il lavoro di giornalisti e mediattivisti locali; servono pareri competenti; servono prese di posizione.
  • E serve diffondere e far circolare informazione, per fare pressione verso la verità. Tenere acceso e puntato il faro.
  • Per comunicare, intervenire, dialogare e rilanciare questa è la pagina Facebook del Comitato: https://www.facebook.com/Verit%C3%A0-sulle-morti-in-carcere-106348724328521/
  • Questa la mail :  info@dirittiglobali.it
APPELLO PER UN
COMITATO PER LA VERITÀ E LA GIUSTIZIA
SULLE MORTI NELLE CARCERI
Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, che sono stati omessi dalle informazioni rese dalle autorità.

Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti.

Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che «le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini», senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte.

Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo – o smentendo – quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine.

Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni.

A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti.

Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra.

In questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto.

Primi firmatari: Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa